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I Documenti

Tre grandi fascisti siciliani - Parte 2°

FILIPPO ANFUSO
AMBASCIATORE DELLA DESTRA

Coerenza perfetta “Seppe tener testa ai diplomatici tedeschi durante il conflitto ed agli avversari comunisti nel dopoguerra. La politica estera del MSI deve a lui la sua prima impronta ed il prestigio internazionale”

FILIPPO Anfuso, il temerario ambasciatore della Repubblica Sociale a Berlino che seppe tener testa ad Hitler nel pretendere ed ottenere un più umano trattamento nei confronti degli internati italiani in Germania, diventati ostaggio del vendicativo alleato tradito, poté replicare alla Camera, da deputato del MSI, al comunista Pajetta che lo aveva interrotto con un insulto, ricordandogli che «mentre ella stava a Roma al servizio dell’Unione Sovietica per sovvertire l’Italia, io stavo in Germania per proteggere gli italiani e a difendere gli interessi dell’Italia». Una verità riconosciuta e sancita dalla sentenza della Corte d’assise di Perugia del 14 ottobre 1949 che, modificando la con danna a morte inflitta ad Anfuso il 14 marzo 1945 dall’Alta Corte di Giustizia del Regno del Sud (che gli aveva attribuito persino responsabilità organizzative dietro l’assassinio dei fratelli Rosselli a Parigi), nell’assolverlo «per non aver commesso il fatto» sottolineava «la forte influenza» dell’ambasciatore di Mussolini a Berlino «nell’aiutare in ogni modo gli internati italiani in Germania [….] salvando la vita a connazionali condannati a morte, proteggendo i perseguitati politici, ottenendo il rimpatrio di molti connazionali ed operando efficacemente a loro favore nei campi di lavoro e di concentramento».

CORAGGIOSO DIPLOMATICO

Dopo trattative tutt’altro che facili, Anfuso era riuscito, intanto, a far partire mensilmente dall’Italia 250 vagoni con 20.000 quintali di viveri per gli internati italiani in Germania, per poi arrivare a strappare ai tedeschi, ancora sospettosi e diffidenti dopo il voltafaccia badogliano dell’8 settembre, il consenso ad abbattere i reticolati dei campi di concentramento e a trasformare lo status dei prigionieri in quello di «liberi lavoratori civili». Molti dei quali si arruolarono nelle quattro divisioni di volontari della RSI che si stavano addestrando in Germania: Monterosa, Littorio, S. Marco, Italia. Grazie alla rischiosa azione di Anfuso, gli internati italiani in Germania si ridussero da 600.000 a 13.000, in genere ufficiali superiori compromessi con Badoglio. Due storici stranieri, l’inglese Deakin e il tedesco Kaby, gli riconosceranno di essere stato uno dei più intelligenti, abili e coraggiosi diplomatici della seconda guerra mondiale. Diplomatico di carriera, uomo politico per passione, ma soprattutto finissimo letterato per vocazione; ci ha lasciato importanti testimonianze di valore storico, profetiche intuizioni di politica estera sorprendentemente attuali, deliziose pagine di narrativa ed anche poesie forti e delicate che gli somigliano moltissimo. La sua opera fondamentale resta comunque Roma-Berlino-Salò (Garzanti 1950) già pubblicato in Francia dall’editore Calmann-Lewy, in Germania dall’editore Pobei e successivamente ristampato in Italia con il titolo Da Palazzo Venezia al Lago di Garda, prima da Cappelli e recentemente dal Settimo Sigillo. Di notevole interesse anche L’innocenza del Mezzogiorno (Garzanti 1962), Fino a quando? (Edizioni del Borghese) e, infine, una raccolta di suoi scritti e interventi oratori pubblicata con il titolo Discorso ai sordi per le edizioni de «L’Italiano» di Pino Romualdi. Intimo di Galeazzo Ciano, genero del Duce (Salvemini li chiamava «fratelli siamesi»), Anfuso - con la tempesta nel cuore- non aveva avuto esitazioni nello scegliere la fedeltà a Mussolini quando l’amico gli confidò che stava per partecipare alla congiura del 25 luglio 1943.
Inutilmente alla vigilia della riunione del Gran Consiglio, che sarebbe stata l’ultima del regime, aveva tentato di avvertirlo sui guai che avrebbero fatto seguito a quella decisione: «Siete tutti pazzi. credete che se venisse votata una mozione contraria alla politica del Duce non ci sarebbero gravissime irreparabili conseguenze Invece sarebbero terribili e coinvolgerebbero tutti: il Duce, il governo, il regime, voi! E soprattutto non dovete credere che sia possibile governare l’Italia tenendo in piedi il fascismo, senza Mussolini. E assurdo. Senza di lui crollerete tutti!». Consumata la drammatica giornata del 25 luglio, Anfuso tenterà ancora un prudente consiglio all’amico che gli aveva confidato di voler raggiungere la Germania: «E una pazzia finire fra te braccia dei tedeschi».
Ma Ciano, dopo alcuni giorni di tormentata indecisione, pensa davvero che rifugiarsi in Germania sarebbe la sua salvezza. Resta un mistero come possa illudersi che Hitler lo avrebbe messo sotto la propria tutela. Finirà fucilato a Verona con gli altri componenti il Gran Consiglio che avevano firmato l’ordine del giorno Grandi contro il Duce. Intanto Mussolini è prigioniero di Badoglio al Gran Sasso. Anfuso è rientrato al suo posto di ministro plenipotenziario a Budapest, in una situazione personale difficilissima, con il cuore da una parte e il dovere dall’altra, obbligato a rappresentare un governo che ha dichiarato di voler continuare la guerra, mentre, invece, già si è accordato con il nemico. Così per 35 penosi giorni, pieni di angoscia e di tristezza. Giunge infine l’8 settembre con la conferma del voltafaccia di Badoglio: «è una porcheria!» sbotta un Anfuso non più compassato. Poi l’altra notizia, il governo e il Re sono fuggiti al Sud abbandonando al più cupo destino le Forze Armate.
Anfuso è al colmo dell’indignazione: «è una vergogna!». Tanto più che aveva ospitato in legazione, per metterla al riparo dalla vendetta tedesca, la principessa Mafalda, figlia di Vittorio Emanuele. Seguono altre giornate tormentate, sino alla sera del 13 settembre quando apprende dalla radio l’avvenuta liberazione del Duce dalla prigionia di Campo Imperatore ad opera dei paracadutisti germanici. Pochi minuti dopo parte da Budapest un telegramma per Mussolini: «Duce, con voi sino alla morte. Filippo Anfuso». Resterà un esempio isolato fra tutti i capi missione italiani sparsi nel mondo. Uno stile in perfetta coerenza con i comportamenti di tutta la vita, sin dagli anni giovanili, allievo di Gentile e con D’Annunzio alla marcia di Ronchi per poi intraprendere una delle carriere diplomatiche più brillanti: incaricato d’affari presso le delegazioni di Pechino e di Atene, capo di gabinetto al Ministero degli Esteri, ministro plenipotenziario, ministro d’Italia a Budapest, ambasciatore a Berlino.

GIORNALISTA E POLIGLOTTA

Era arrivato al fascismo attraverso l’adesione al movimento nazionalista che considerava la continuità del Risorgimento. Ed è in questo ambiente che, non ancora diciottenne, esordisce su l’«Idea Nazionale» di Roberto Forges Davanzati. Sarà l’inizio di una prestigiosa attività letteraria e giornalistica poi sviluppata come articolista nei giornali importanti dell’epoca, da «Il Mattino» di Napoli a «La Nazione» di Firenze, dal «Piccolo» di Trieste a «L’illustrazione» di Roma. La sua firma appare spesso accanto a quelle di Malaparte, Aniante, Vergani, Longanesi con i quali si incontra abitualmente nella famosa «terza saletta» del Caffè Aragno. Le corrispondenze che invia da Fiume durante l’impresa dannunziana sono sicuramente le più appassionate di quella storica vicenda. È un uomo elegante, piacevolissimo conversatore; di grande fascismo. I suoi occhi siciliani sono una rarità.
Per Anton Giulio Bragaglia «leggendari», per Alberto Giovannini «vellutati e carezzevoli», certamente una calamita per le molte belle donne che ne subirono il fascino, anche - si disse - la moglie di Ciang Khai Shek, al tempo della missione di Anfuso in Cina. Una sottile ironia - che qualche volta, in circostanze polemiche che avrebbero fatto saltare i nervi a chiunque, diventava pacato sarcasmo - lo aiutavano a sdrammatizzare anche le prove più difficili. Basti pensare alla circostanza che nessun ambasciatore, nel corso della seconda guerra mondiale, si trovò nella situazione di assolvere con altrettanta fermezza e tatto l’ingrato compito di ottenere da Hitler quello che soltanto lui riuscì a strappargli. Di sterminata cultura multilingue - parlava correttamente il francese, l’inglese, il tedesco, l’ungherese e se la cavava abbastanza bene con il polacco e con l’arabo - era costantemente disincantato e sostenuto da una fiera dignità che gli consentirono di superare con grande stile momenti per chiunque altro terribili. Come i tre anni di carcere duro trascorsi senza battere ciglio nella prigione francese di Fresnes, dalla quale fu poi rimesso in libertà con tante scuse da parte della Corte d’appello parigina che dispose «il non luogo a procedere» per l’inconsistenza e la palese falsità delle accuse che erano state rivolte al diplomatico - su istigazione di ambienti antifascisti italiani - di aver complottato nel 1937, su ordine di Ciano, «per sovvertire il governo nazionale francese e fomentare la guerra civile».
Di quella drammatica esperienza carceraria non amava parlare. Se proprio doveva per cortesia rispondere a qualche domanda, ricordava soltanto gli aspetti grotteschi della sua detenzione. Disse bene Alberto Giovannini: «sapeva di aver scelto la sorte dei vinti, e considerava persecuzioni e sofferenze come naturale conseguenza di quella scelta». Dopo la tragedia della guerra, i tre anni di carcere in Francia e un periodo di esilio in Spagna, rientrò in Italia nel 1949 e subito riprese la battaglia politica nelle file del MSI, condividendo la direzione del «Secolo» - soprattutto ma non soltanto per la parte della politica estera - con Franz Turchi e Giorgio Almirante. Fondatore e direttore della rivista «Europa Nazione» e del combattivo settimanale «La Patria degli Italiani», fu componente l’Esecutivo nazionale del Partito e deputato eletto nella natia Catania per tre legislature, nel ‘53, nel ‘58 e nel ‘63, anno della sua morte esemplare. Ispiratore della politica estera del MSI (seguitissimi suoi articoli di fondo sul «Secolo» e la spumeggiante rubrica «microsecolo» che allusivamente volle firmare «Davide») privilegiava la strada che avrebbe portato l’Italia in Europa, non l’Europa «anemica ed asfittica dei burocrati» né quella mercantilistica dei banchieri senza anima, ma l’Europa dei popoli, l’Europa delle Nazioni.
Era persuaso che «vinti e vincitori non hanno fatto altro che accelerare il processo fatale dell’unità europea». Una sua frase, pronunciata nel contesto di un discorso alla Camera, è poi diventata l’abusato slogan di molti tardivi europeisti: «noi non ci sentiamo ita1iani in quanto europei, ma europei in quanto italiani»

OLTRE LA «RISSA ATLANTICA»

Al secondo congresso del MSI, celebrato all’Aquila, trovò le parole giuste per superare «la rissa atlantica» all’interno del Partito tra i fautori dell’alleanza occidentale, che ponevano la questione in termini di difesa dalla minaccia sovietica, e i contrari che non riuscivano a placare il rancore contro gli americani, alleati dell’Urss in guerra e responsabili di tanti indiscriminati bombardamenti. Anfuso fu abilissimo nel porre il problema esclusivamente in termini europei, pertanto - disse severo - «fate sì che si chiuda al più presto questa stupida rissa in un partito che per guardare al tipo di Europa che noi, i vinti, intendiamo contribuire a costruire deve avere l’intelligenza politica di superare tanto l’atlantismo quanto l’antiatlantismo.
La nostra strada e’ l’Europa». Un argomento gli offri l’occasione di lodare il cancelliere Adenauer per aver trovato il coraggio di chiamare intorno a sé anche i combattenti della guerra perduta e di praticare una reale, concreta pacificazione unitaria europea respingendo l’assurda distinzione fra l’Europa dei vincitori e l’Europa dei vinti. Al contrario di De Gasperi il quale, pur sviluppando un’apprezzabile azione europeista, continuava a varare leggi punitive ai danni degli europei considerati di «seconda categoria» perché avevano perduto la guerra.«Non possiamo credere alla vostra Europa - disse Anfuso alla Camera - che è ancora l’Europa delle leggi eccezionali, sino a quando continuerete a dirci che esistono differenze all’interno delle nazioni e fra cittadini e cittadini. Volete creare l’Europa? E allora abolite le distinzioni fra gli Stati nazionali, e voi l’avrete, e noi saremo con voi, perché sappiamo - come disse Mazzini - che la Nazione non è un fatto ma una missione».

BATTAGLIA PER L’ITALIA

E di politica estera stava parlando alla Camera (le sue analisi così scrupolosamente documentate, erano ascoltate con grande attenzione da tutti i settori. sia pure con vivaci interruzioni dai banchi di Sinistra che ogni volta sapeva rintuzzare con caustica ironia) nell’ultimo giorno della sua vita, il 13 dicembre l963. Era intento a spiegare le ragioni dell’opposizione missina all’ambigua politica estera del governo di Centrosinistra appena formato dall’On. Moro, quando - erano da poco passate le 21 fu sopraffatto da un improvviso malore. Esortato da un deputato medico, il democristiano Spinelli subito accorso, a distendersi sul suo banco e a non muoversi sino all’arrivo di una barella, rispose con cortese fermezza: «non facciamo scene, qui».
E prese a scendere. visibilmente provato, verso il banco del governo per scusarsi con Moro di non essere in condizione di proseguire l’intervento che il capo del governo aveva dimostrato di seguire attentamente prendendo appunti. Stretta di mano con Moro, in un silenzio irreale che aveva gelato tutta l’aula mentre Anfuso con la sua figura sempre eretta ma adesso per la prima volta barcollante si avviava lentamente all’uscita. Appena il tempo di richiudere la porta e quindi il crollo. Spirerà pochi minuti dopo.
Aveva 62 anni, portati splendidamente. Seppe morire in piedi, con la stessa elegante fierezza con la quale aveva saputo vivere. Congedandosi con quella sua ultima appassionata battaglia per l’Italia. Un esempio per tutti. Amici ed avversari. Il cordoglio fu corale. Il Presidente della Camera Bucciarelli Ducci, dispose che la salma restasse a Montecitorio in una camera ardente appositamente allestita. Il pellegrinaggio fu incessante per tre giorni. Le commemorazioni ufficiali, presenti la vedova ungherese e i tre figli, furono tenute dal Presidente dell’assemblea e dal presidente del Consiglio Moro, alle quali si associarono i capigruppo di tutti i settori. Fra le moltissime testimonianze, particolarmente significativa quella del Presidente egiziano Nasser. A dimostrazione perdurante del prestigio che Anfuso godeva anche nel mondo arabo.

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